Persona, fiducia e comunità: la speranza elemento chiave nel lavoro sociale ed educativo
L’incontro “Tessitori di speranza” con Trevisi e Mariani, promosso da Solidarietà e Servizi Fondazione e dalla cooperativa sociale Solidarietà e Servizi, ha dato un nuovo slancio al ruolo dell’operatore sociale
Chiamati a essere “tessitori di speranza”. Gli educatori, gli assistenti sociali e tutti coloro che lavorano in ambito sociale ed educativo devono essere costruttori di un nuovo approccio, dove la persona – e non l’individuo – è al centro di tutto e dove la speranza è quell’elemento capace di creare fiducia, dare vita a nuove progettualità e costruire il cambiamento. La cooperativa sociale Solidarietà e Servizi e Solidarietà e Servizi Fondazione, in collaborazione con l’agenzia Mete No Profit che ha finalità culturali, scientifiche e metodologiche nel campo del servizio sociale, hanno promosso sabato 18 giugno l’incontro dal titolo “Tessitori di speranza”; un appuntamento molto partecipato (più di 100 le persone che lo hanno seguito in presenza dalla sede di Solidarietà e Servizi e in streaming) che ha voluto riflettere sul ruolo, oggi, del lavoro sociale ed educativo. In cattedra due autorevoli relatori: Giuseppe Trevisi, assistente sociale e pedagogista, docente dell’Università degli Studi di Milano e Vittore Mariani, pedagogista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
«L’operatore sociale è oggi stretto tra due fronti: ci sono procedure e standard cui rispondere, ma sente l’esigenza di accompagnare le persone di cui si prende cura. Come operatori ci viene quindi chiesto di essere tessitori, tessitori di speranza», ha introdotto Laura Puricelli responsabile area Autismo e Autonomie della cooperativa sociale Solidarietà e Servizi e membro del Consiglio di Amministrazione dell’omonima Fondazione.
Ma cos’è la speranza? «La speranza motiva ad aver fiducia e non cedere: se cedo, ne va del mio umano e dell’umanità che incontro», ha detto Trevisi. «Speranza non è l’andrà tutto bene che leggevamo durante il lockdown. Se una persona ha speranza dice: io sono certo che andrà tutto bene. Perché ho in me una certezza, un senso che regge l’urto della realtà, anche l’urto della pandemia. La speranza è quindi un punto di partenza e non un’opzione perché si spera in un bene più grande. E qui, ognuno fa i conti con se stesso». Un operatore sociale – dice ancora Trevisi – è chiamato a raccogliere gesti di speranza: «In quella che chiamo ”disponibilità a tutta prova” e che significa “io ci sono”, la costruzione di progetti permette di intercettare la speranza, ovvero il desiderio, la richiesta della persona. Ci vuole coraggio per sperare perché la realtà che impatta è molto dura».
Proprio partendo dalla speranza, Mariani ha indotto la necessità di operare per un cambiamento, un cambio di prospettiva che vada oltre stereotipi, catalogazioni e pregiudizi. «La speranza è universalmente definita come fiducia nella possibilità di realizzazione di un futuro positivo. E per un futuro positivo usiamo la parola “bene”. Ma qual è il bene per l’essere umano?», si è chiesto. Innanzitutto, allora, serve definire l’essere umano. «Dal punto di vista pedagogico riconosciamo l’essere umano nella sua intrinseca umanità; riconoscere la sua originalità. Da qui, riconosciamo subordinatamente le sue potenzialità. Attraverso il linguaggio e il contatto corporeo entriamo in contatto con persone che si trovano in una situazione di difficoltà; ma il problema non è loro: è nostro. Riconoscendo l’originalità della persona possiamo personalizzare il nostro intervento: la chiave quindi della speranza è la personalizzazione. Noi lavoriamo sul potenziale umano, e non sui problemi, mettendo in campo una grande audacia educativa».
All’interno di questo quadro, anche la relazione educativa assume una nuova dimensione. Tre le accezioni individuate da Mariani: «Una progettualità accogliente comunitaria, cioè il creare un contesto affinché la persona si possa sentire accolta, dove è la comunità a progettare l’accoglienza e fare educazione. La relazione educativa è quindi sviluppo del potenziale umano e vera inclusione. Educare significa permettere alla persona di essere dinamicamente se stessa, destabilizzando continuamente il contesto. Qui la parola chiave è “destabilizzare”: siamo noi che ci dobbiamo destabilizzare; siamo noi che dobbiamo cambiare».
Partendo da questi «fondamentali», la speranza diventa «il coltivare la libertà. Così, davanti a una persona disabile, la libertà è dare continuamente delle possibilità». Come realizzare tutto questo? «Attraverso un progetto educativo personalizzato; attraverso gli strumenti comunitari che devono coinvolgere anche le famiglie e una cultura del cambiamento». Ha concluso: «La situazione è difficile, dobbiamo affrontarla con lucidità progettuale, nella consapevolezza che i risultati potranno non essere immediati».