Il Dopo Di Noi nella Casa di via dei Liguri a Pavia: una best practice riconosciuta da Regione Lombardia 

L’Housing per persone con disabilità gravissime realizzato nel 2018 da Solidarietà e Servizi e Associazione Un Nuovo Dono scelto da Regione per la propria campagna di comunicazione per il Dopo Di Noi

La Casa di via dei Liguri è diventata testimone del Dopo Di Noi. Regione Lombardia, all’interno del progetto “Lombardia Facile”, il servizio di informazione che affronta a 360 gradi tutti gli aspetti della vita quotidiana e le esigenze delle persone con disabilità, ha indicato come best practice l’housing di Pavia coprogettato dalla cooperativa sociale Solidarietà e Servizi e dall’Associazione Un Nuovo Dono. Alla Casa, dove vivono cinque persone con disabilità grave dal 2018, ATS Pavia ha dedicato il video “Dopo Di Noi – insieme verso il futuro: tra privato e privacy” dove viene presentata l’esperienza dell’housing, dalla sua nascita, quale opportunità innovativa e diversa rispetto ai servizi residenziali tradizionali, alla sfida vinta: «È possibile vivere a casa propria anche con disabilità intellettiva e motoria complessa», dice nel video Massimo Zanotti, presidente dell’Associazione di genitori Un Nuovo Dono.

La Casa di via dei Liguri è un progetto abitativo che sostiene le scelte di vita adulta di chi vi abita, dà una risposta a chi l’ha voluta, ovvero i genitori delle cinque persone residenti, e soprattutto è un nuovo modo di pensare il Dopo Di Noi. «I cinque ragazzi con disabilità grave stanno già costruendo, in questo “durante noi”, un “dopo di noi” sereno e consolidato», prosegue Zanotti.

«Non siamo “Ente gestore” e la Casa non è “un servizio”», puntualizza Giacomo Borghi, responsabile d’Area di Solidarietà e Servizi. «Quella che agli occhi di un profano potrebbe apparire come una sottigliezza tecnica, è invece un elemento fondamentale: famigliari e operatori insieme sono corresponsabili del buon andamento della vita quotidiana. Se, ad esempio, pensiamo a tutte le problematiche nella gestione dell’emergenza sanitaria nelle strutture residenziali, si può capire cosa abbia potuto significare che gli ingressi nella Casa fossero decisi insieme dai genitori con gli operatori, all’interno del quadro normativo valido per ciascun cittadino con o senza disabilità».

I risultati dei primi quatto anni sono estremamente positivi. I Progetti di Vita delle cinque persone vengono verificati periodicamente attraverso interviste agli interessati e ai care givers utilizzando la Scala San Martin, cioè il primo strumento riconosciuto a livello internazionale per la valutazione della qualità di vita delle persone con grave disabilità. «I dati che abbiamo ottenuto sono tutti molto positivi», spiega Simona De Alberti, referente per Solidarietà e Servizi dei Centri Diurni Disabili di Pavia. «La valutazione viene effettuata considerando sette dimensioni: l’autodeterminazione, il benessere emotivo, il benessere materiale, i diritti, lo sviluppo personale, l’inclusione sociale e le relazioni interpersonali. I miglioramenti registrati nella qualità di vita hanno interessato sia le due persone che provenivano da un’esperienza in casa con in genitori, ma soprattutto le tre che arrivavano da strutture socio sanitarie. Le ultime rilevazioni sfiorano il massimo del punteggio previsto: questo significa che il progetto della Casa di via dei Liguri, nonostante le difficoltà degli ultimi anni dettate dall’emergenza sanitaria, permette realmente di migliorare la qualità di vita delle persone disabili. Permette loro di scegliere, di gestirsi e di costruire il loro futuro all’interno del progetto di vita personalizzato, rispettando quella riservatezza che una vita adulta richiede». Fabio, uno dei cinque residenti, infatti racconta quanto sia importante per lui avere una camera tutta sua, «dove poter ascoltare la musica ad alto volume, ma anche confidarmi con gli operatori». Ma anche dove rifugiarsi nei momenti difficili: «Siamo in cinque in casa e quando sono un po’ arrabbiato chiudo la porta e mi isolo». E dove coltivare le sue grandi passioni: «La musica, mi piace il trap, e l’hockey su carrozzina» di cui conserva i premi vinti nelle competizioni.

Per guardare il video della Casa di via dei Liguri: https://www.youtube.com/watch?v=lpq1QCT8dfM

Benessere, sostenibilità e arricchimento personale: questo l’impatto sociale di Solidarietà e Servizi

Sono i primi elementi evidenziati dal team dell’Università Cattolica nel processo di valutazione di impatto sociale avviato dalla cooperativa

Sostenibilità, benessere, arricchimento personale e miglioramento della rilevazione del bisogno. Sono i primi feedback avuti dal percorso di valutazione di impatto sociale avviato da Solidarietà e Servizi. La cooperativa sociale ha infatti dato il via all’inizio dell’anno al processo per la valutazione di impatto sociale affidandosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano attraverso il CESEN – Centro studi sugli Enti ecclesiastici e sugli altri enti senza fini di lucro – e ALTIS, Alta Scuola Impresa e Società. Un percorso che, in questo 2022, è concentrato sull’analisi dell’Area Inserimento lavorativo; il prossimo anno invece sarà valutata l’Area Autismo, Servizi diurni e residenziali.

«Si tratta di un percorso innovativo che, più che fare leva su elementi quantitativi, cerca di porre in evidenza gli elementi qualitativi caratterizzanti l’attività svolta dalla cooperativa sociale. E, attraverso questi, andare a definire l’impatto che ha Solidarietà e Servizi sui propri stakeholder, ovvero sui soggetti portatori di interesse che operano o semplicemente entrano in contatto con la cooperativa», spiega Fabrizio Carturan, alla guida del gruppo di lavoro di Solidarietà e Servizi che affianca CESEN e ALTIS.

Il primo step è stata l’individuazione proprio delle tipologie di stakeholder per le quali il cambiamento, riconducibile ai servizi erogati dalla cooperativa, è più evidente. «Insieme con il team dell’Università Cattolica siamo andati a definire la tipologia di soggetti che entrano in contatto con la nostra cooperativa. Un primo passo che ha permesso di andare a selezionare un campione ritenuto rappresentativo di enti, realtà e persone sui quali Solidarietà e Servizi ha un impatto».

Tra le tipologie di stakeholder individuate, ne citiamo quattro: aziende e imprenditori, amministrazioni pubbliche, personale dipendente e coordinatori e responsabili delle attività. «Alcuni di loro sono stati riuniti in focus group per verificare e approfondire quali siano le “dimensioni di impatto” definite come importanti e derivanti dal loro collaborare – ciascuno per la propria esperienza – con la cooperativa», prosegue Carturan. Il risultato è stato sorprendente. «Secondo quanto ci ha restituito il team della Cattolica, gli imprenditori coinvolti hanno usato parole come sostenibilità sociale ed economica, hanno parlato di ripercussioni sugli obiettivi strategici delle loro realtà e hanno sottolineato l’impatto sulla loro reputazione sia interna, sia esterna. Dagli enti pubblici sono arrivate osservazioni in merito al proprio rapporto con il territorio, ma anche alla possibilità di migliorare sia la rilevazione del bisogno sia l’organizzazione del lavoro al loro interno. I dipendenti hanno parlato di integrazione, inclusione, sviluppo personale, benessere: tutte dimensioni che sono state oggetto di cambiamento da quando è stata avviata la loro collaborazione con la cooperativa. Da ultimi, i coordinatori hanno sottolineato l’arricchimento personale, il coinvolgimento nella mission della cooperativa e, soprattutto, l’importanza sociale del loro lavoro. Tutti hanno comunque fornito elementi positivi. Di fatto – prosegue Carturan – in questa prima fase c’è stata una grande disponibilità da parte dei soggetti e delle persone coinvolte: alla curiosità per il processo che è stato avviato e che rappresenta un unicum, si è associato l’interesse nel volersi soffermare a riflettere sugli elementi di valore che scaturiscono dalla collaborazione con Solidarietà e Servizi».

Come prossimo passo, l’esito dei focus group sarà la base per redigere i questionari che a loro volta saranno somministrati a una platea più ampia di stakeholder al fine di ottenere un quadro il più possibile completo e oggettivo dell’impatto sociale generato dalle attività, dai servizi e dai progetti di Solidarietà e Servizi.

“Mai più soli”: più di una parola, una promessa. L’articolo di Maurizio Vitali pubblicato su Tracce

L’incontro tra il giornalista del mensile e la cooperativa sociale in un racconto che coglie il valore del pay-off che accompagna Solidarietà e Servizi da oltre 40 anni

Qualche settimana fa Maurizio Vitali, giornalista della rivista Tracce, è venuto in Solidarietà e Servizi. Ha visitato alcuni servizi, incontrato le persone e vissuto insieme con loro alcuni momenti della giornata riuscendo a cogliere il significato di quel “mai più soli” che guida Solidarietà e Servizi da oltre 40 anni. Questo il suo articolo che è stato pubblicato sul numero di luglio 2022 del mensile Tracce.

«Mai più soli»

di Maurizio Vitali

«Lavorando qui ho avuto la possibilità di pensare che la vita non è chiusa in un confine, ma gode di un oltre». Parola di Salvatore, uno delle migliaia di volti accolti dalla Cooperativa sociale Solidarietà e Servizi, che cura, educa, dà lavoro a  persone fragili. «Mai più soli» è il pay-off della Cooperativa sociale Solidarietà e Servizi, il motto che la contrassegna. Ma anche molto di più: è parola detta a ciascuna delle 6.113 persone fragili e disabili “prese in carico”, è promessa fatta a ognuno in una relazione da persona a persona da parte dei 502 operatori quotidianamente impegnati ad adempierla.

La Cooperativa, nata nel 1979, ha il quartier generale a Busto Arsizio ed è attiva in sei province (Varese, Milano, Como, Lecco, Monza e Brianza, Pavia) con un’ampia gamma di servizi di carattere socio-sanitario, formativo, educativo, di inserimento lavorativo. Domenico Pietrantonio e Paolo Fumagalli sono i due uomini al vertice: del Consiglio di gestione il primo, del Consiglio di sorveglianza il secondo. Qui ha sede anche il Centro socio-educativo per disabili (non troppo gravi). In uno spazio un po’ soggiorno di casa un po’ laboratorio artigianale, gli ospiti sono impegnati a gruppetti in varie attività (ci sono scansie colme di oggetti costruiti da loro) o in conversazioni con le educatrici (tema: la gita fatta a Cremona). Laura, coordinatrice, spiega quello che sta lì sotto i nostri occhi: che l’approccio non è per nulla assistenziale, che ciascuno è guardato come persona unica, con una sua prospettiva e un suo destino. In una relazione personale, l’educatore riconosce e valorizza i talenti di ognuno. Alessandro, con altri disabili, tiene in ordine la grande aiuola della pizzeria che dà sulla piazza, e ne è molto orgoglioso: «Togliamo le cartacce e le cacche dei cani, bagniamo l’erba, così abbiamo lo sconto sulla pizza». È un esempio di esperienza di autonomia, possibile e fruttuosa solo se la persona si sente voluta e in compagnia. «Io con il Paolo», ci tiene a comunicare un altro, «e con la Francy vado a fare la spesa. A volte cuciniamo noi, e non andiamo a mangiare in mensa». Mario, 54 anni, non ha più l’uso della parola: digita su un sintetizzatore che traduce in voce: «Mi piace stare qui perché mi vogliono bene e mi aiutano a star bene». Stesse parole vengono su dal cuore di Maria, che di anni ne ha 69. Esperienze, pensieri, problemi vengono affrontati e discussi insieme per prenderne coscienza, imparare, farne tesoro: cartelloni scritti a pennarello appesi alle pareti raccolgono il succo delle scoperte e delle condivisioni, sotto grandi titoli come “tristezza”, “noia”, “gioia”, “alimentazione”.

A Cassano Magnago il Centro diurno disabili ”Il veliero” accoglie persone, anche minori, con handicap gravi e molto gravi. Nettamente in maggioranza quelli in carrozzina. Come una specie di piccolo drive-in domestico, quattro o cinque di questi “veicoli” sono sistemati in semicerchi o di fronte a uno schermo: guardano i cartoni animati. Altri, in carrozzina o a letto, hanno bisogno di una presenza costante di qualcuno che li accudisca in tutto. Prendersi cura di loro è un affare che non ti dà mai tregua. «In effetti un lavoro così», dice Lucia, coordinatrice del Centro, «va scelto, non subìto magari come ripiego. Per me è stata come la scoperta di una vocazione, nata quando frequentavo ragioneria e ho iniziato a fare caritativa: stare con quelle persone bisognose con una compagnia di amici tesi a cogliere il senso vero di quanto facevamo, a imparare che la vita è gratuità… cavoli! Mi rendeva felice». In una carrozzina che ci passa accanto, c’è una ragazzina minuscola per la sua età – ha 18 anni – gracile, le parti del corpicino sproporzionate, come afflosciata e mezzo accartocciata. «E noi», riflette Lucia «che cosa siamo qui a fare? Noi chi siamo per loro? E loro chi sono veramente per noi, per me? Se mi chiedo solo cosa posso fare e lascio che s’infiltri la pretesa, è un disastro. Occorre semplicemente stare con lei, come un segno, una presenza totalmente gratuita. Anche lei può sentirsi amata, se io stessa mi sento amata». Ma una, da sola, fosse anche una su mille, ce la fa? «No! Non bisogna mai stancarsi di chiedere aiuto … di chiedere. C’è un senso di carità tra i miei colleghi che ci aiuta a prenderci cura di noi stessi e degli altri».

A Gallarate vi è un Centro diurno per minori (una cinquantina fra i 4 e i 18 anni) con disturbo generalizzato dello sviluppo, cioè autistici. Si chiama “Pollicino”, e come nella fiaba offre la traccia per un cammino, in raccordo e a integrazione della frequenza scolastica, di crescita personale. Qui, sotto la guida della coordinatrice, Mariolina, tutto è predisposto con cura. Gli spazi organizzati e ben strutturati, non angusti, ma nemmeno troppo ampi; le cose in ordine, materassini per il relax, strumenti per l’attività motoria, scatole e antine degli armadietti ben etichettati per indicare il contenuto, agenda con la scansione della giornata. Accorgimenti cruciali per una reale attenzione alla persona con disturbi dello spettro autistico, la quale resterebbe dolorosamente disorientata, se non traumatizzata, se non fossero messi in atto. Non solo. Seguire un ragazzo significa non solo dedicare tempo e attenzione a lui, ma anche alla famiglia, che deve portare un enorme carico di fatica fisica e psicologica. Qui raccolgono le lacrime di padri che confidano: «Io da solo tutto questo dolore non ce la faccio a reggerlo», o le angosce di madri avanti negli anni per il futuro dei loro figli: «Chi gli vorrà bene quando non ci sarò più?». Ecco, sempre la percezione acuta, netta, che da soli non ce la si fa. L’unica speranza è in una compagnia che arrivi fino all’amicizia.

Ultima tappa del nostro viaggio, il “Capannone” di Busto, che fornisce lo sbocco lavorativo in diversi reparti: meccanica, assemblaggio, rigenesi di apparecchi di telecomunicazione, gestione documentale e de-materializzazione, call-center e back-office. Si va dalle operazioni più semplici a quelle più complesse e di alto livello. Dovunque, a vederli lavorare, non distingui chi è disabile (circa il 60-65%) e chi no: stesso impegno, stessa cura, stesso piacere del lavoro ben fatto. I disabili seguono un percorso graduale: preparazione al lavoro; tirocinio, con contratto di formazione, per valutare le sue capacità; infine l’assunzione come dipendente a pieno titolo. «Noi crediamo nel lavoro inteso come realizzazione della persona», tiene a sottolineare il presidente Pietrantonio: «Che sia un lavoro degno, utile, remunerato. Perciò accettiamo la sfida del mercato: soddisfare clienti che sono aziende importanti e di prestigio, giustamente esigenti sul rispetto dei tempie sugli standard di qualità. I nostri lavoratori ne sono consapevoli, corresponsabili e orgogliosi». Su una parete è dipinto un grande albero. Rami e radici corrispondono a parole importanti, raccolte dalle esperienze e dai pensieri dei lavoratori. Una è “orizzonte”. L’orizzonte intravisto da Salvatore, cardiopatico, i medici avevano previsto che non sarebbe arrivato a 14 anni, è morto a 33, grato perché «lavorando qui ho avuto la possibilità di pensare che la vita non è chiusa in un confine, ma gode di un oltre». Un’altra è “realizzazione”: «Passavo sempre per incapace, invece ho imparato a riconoscere il mio valore». Poi la parola “onestà”: viene da un lavoratore ex tossicodipendente, abituato a mentire e imbrogliare: «Mi sono sentito guardato e accettato per quello che sono, non mi serve mentire, è naturale essere onesto». Le radici affondano nella parola “dignità”. Fatima, immigrata di 21 anni, una vita a raccogliere patate nei campi per due soldi e neanche uno sguardo da umani: «Qui ho capito che anch’io valgo qualcosa». Davide, un ragazzone di 36 anni, schizofrenico: «Ho fallito tutti i tentativi, solo e lasciato a me stesso non riuscivo neanche a tenere il posto che mi davano». Ora è orgoglioso di «andare a comprare il pane con i soldi che guadagno». «Noi capi e coordinatori», interviene Pippo, «siamo fortunati: vedere come queste persone fragili vivono il lavoro è un dono prezioso da custodire. Ci mostra che il senso del lavoro nasce dall’obbedienza alla realtà, e che si è utili e motivati se si serve qualcosa di più grande. Nel concetto di obbedienza alla realtà si riconosce pienamente anche chi credente non è: semplicemente compartecipa alla stessa esperienza dell’umano, allo stesso cammino di redenzione». Una signora oggi cinquantenne, la vita segnata delle violenze subite dal padre: «Io non ho un Dio, ma grazie a quanto mi dicono e mi fanno vedere i nostri capi, io oggi odio meno mio padre». Una sua collega: «Sono cresciuta in una famiglia credente, poi nella vita mi sono trovata sola e piena di rabbia. Qui sto facendo un grande lavoro su me stessa. Provo invidia per quelli che si convertono, perché li vedo gioiosi». Amanda lavora alla gestione documentale: «Sono passata dalla voglia di morire alla voglia di vivere». Sara ha 28anni, la sindrome di Asperger, una memoria pazzesca, una laurea in Economia, e la perfetta consapevolezza delle sue limitazioni: «Cercavo di camuffarmi per nascondere la mia diversità, qui ho imparato ad accettare la mia condizione, a lavorare sulla mia fragilità. E a pregare».

«Incontro e accoglienza: qui ho vissuto il vero valore del nostro Insieme ci riusciamo»

Memoria storica di Solidarietà e Servizi, Massimo Sangalli va in pensione dopo 38 anni vissuti in ascolto dei bisogni, ma soprattutto dei desideri delle persone di cui si è preso cura

Cambiare prospettiva. Mettersi dall’altra parte per guardare ai bisogni di una persona. Non importa se davanti a noi ci sono persone fragili, con disabilità fisiche o psichiche, leggere oppure particolarmente complesse: l’importante è saper camminare insieme. E “insieme” è il grande insegnamento che Massimo Sangalli ha fatto suo nei 38 anni di attività in Solidarietà e Servizi. Assunto nel 1986, a luglio ha lasciato il coordinamento del Centro Diurno Disabili (CDD) di Marnate ad Annalisa Dabraio per la meritata pensione.

Quell’ “insieme ci riusciamo” che muove Solidarietà e Servizi da 43 anni è diventato per Massimo approccio globale alla persona, visione del lavoro come luogo educativo e attenzione ai bisogni ma soprattutto ai desideri delle persone. «La mia esperienza in Solidarietà e Servizi ha avuto inizio nel 1984 con gli 11 mesi di servizio civile», ricorda Massimo. «Da allora è stato un cammino fatto insieme, fatto di servizi, di persone, di formazione, di responsabilità ma soprattutto di crescita insieme. Quando ho iniziato, con me c’erano ragazzi miei coetanei. Paolo, che oggi è al CSE – Centro Socio Educativo – di via Isonzo, ma anche Marco, Pier, Maurizio, Tullio, Alberto, Stefano e Mario: siamo diventati grandi insieme. Tanti giovani uomini che in quel periodo provavano a mettere le mani sulla realtà per farla diventare un pochino più interessante».

Memoria storica della cooperativa, che ha seguito passo passo l’ampliamento delle strutture e dei servizi, Massimo ha assistito alla nascita del primo SFA – Servizio di Formazione all’Autonomia – di Solidarietà e Servizi, «anche se ai tempi il servizio aveva una valenza molto più rivolta verso l’assistenza. Quell’assistenza che permette di avere momenti privilegiati con i ragazzi attraverso i quali conoscersi, fidarsi, far emergere le cose più belle ma anche quelle più dolorose». Il lavoro insieme alle persone con disabilità è stato al centro della sua attività iniziale. «Negli anni Novanta iniziavano a esserci le convenzioni lavorative attraverso le quali alcuni nostri ospiti potevano entrare nel mondo del lavoro: imparavano non solamente a lavorare, ma soprattutto la passione per il lavoro. Perché si possono imparare tutte le operazioni da fare, ma se non si impara la passione si perde la realtà».

Seguendo l’evoluzione normativa dell’ambito socio-sanitario, Massimo è diventato dapprima responsabile della qualità e dei trasporti per Solidarietà e Servizi, per poi essere nominato coordinatore del CDD – Centro Diurno Disabili – di Marnate, servizio storico nonché centrale per la cooperativa sociale. «Una grande responsabilità e una bella sfida che ho accettato ciecamente, fidandomi di chi mi aveva affidato l’incarico», ricorda. «Ho fatto mio il principio della responsabilità, sentendomi responsabile verso gli ospiti, le loro famiglie, i colleghi e la cooperativa stessa». In questa visione globale si inserisce la presa in carico totale della persona. «I rapporti che ho tentato di creare con le persone delle quali ci prendiamo cura sono sempre stati caratterizzati dalla volontà di collaborazione, amicizia quando possibile e dialogo serrato, sempre con lo scopo da una parte di accogliere il bisogno e dell’altra di tentare di scoprire quale fosse il vero desiderio dell’ospite ma anche dei suoi familiari. Così mi è capitato di scoprire delle cose eccezionali: ricordo Alberto i cui genitori erano un po’ troppo protettivi. La mamma, una donna straordinaria, non lo lasciava mai solo. Ma un giorno Alberto ha detto quello che voleva: “I miei genitori mi trattano come un epilettico”. È stato il punto di svolta del nostro percorso educativo. Aveva un desiderio di adultità».

È nell’ascolto, nel rapportarsi che si cresce insieme. «È il lavoro fatto a Marnate: aprire il servizio al territorio e alla comunità perché, come spesso ci è stato riferito, le persone che sono venute a trovarci ne sono uscite arricchite. Come ha detto il professor Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà: “Il nostro metodo di conoscenza è l’incontro”. E ho sempre desiderato incontrare le persone: non c’è modo diverso per conoscere la realtà, se non incontrarla. E incontrare è non avere pregiudiziali».

Dall’incontro nasce la pienezza. «Quando ero responsabile del servizio trasporto, ricordo cosa mi disse un volontario. Era un ingegnere informatico che pur di venire da noi aveva rinunciato a fare delle consulenze retribuite. Gli chiesi il perché. Disarmante, ma vera la risposta: “Qui mi sento pieno”, mi disse. È quanto capita quando ci avviciniamo agli altri, li ascoltiamo e li accogliamo. È una sensazione impagabile».