Le ferite silenziose del Covid: la relazione per superare il trauma collettivo
Solidarietà e Servizi ha organizzato un convegno di formazione per capire come affrontare l’emergenza psicologica e continuare a prendersi cura delle persone
L’altra faccia dell’emergenza sanitaria. Quella fatta di traumi personali e collettivi, di ansie e paure e che impediscono di tornare a vivere e riprendere in mano le relazioni. Questo lo scopo del convegno organizzato da Solidarietà e Servizi venerdì 23 ottobre in collaborazione con centro di psicoterapia Essere Esseri Umani. Un appuntamento che, previsto inizialmente al Museo del Tessile di Busto Arsizio, si è svolto in modalità interamente online nel rispetto delle normative per il contenimento dei contagi. Con l’incontro “Covid – il trauma negato”, la cooperativa ha voluto offrire anche un momento di formazione ai propri operatori con lo scopo di leggere al meglio il presente per rispondere al meglio ai bisogni, vecchi e nuovi, che stanno emergendo.
«È un tema particolarmente importante che affronta la situazione attuale: si pensa solo alla paura, alla salvezza fisica e si tende a non considerare le conseguenze psicologiche», ha introdotto l’assessore ai Servizi sociali del comune di Busto Arsizio, Osvaldo Attolini. «La necessità oggi è quella di tornare a vivere, seppur con tutte le precauzioni necessarie». Non chiudersi, non isolarsi, ma continuare a operare.
Il contesto però è del tutto nuovo. «Viviamo un’emergenza che ha delle precise caratteristiche», ha proseguito Marta Zighetti, psicoterapeuta sistemico-relazionale, terapeuta supervisore EMDR e relatrice del convegno. «Vi è innanzitutto una mancanza di luoghi sicuri; anche i luoghi istituzionali non sono al sicuro. Vi è stato uno stravolgimento della routine quotidiana, con l’emergere di paure verso l’altro quale elemento di possibile contagio». Non ultimo, «è un trauma collettivo, globale che non è possibile categorizzare. Il Covid ha rimesso in discussione tutte le nostre decisioni abituali: ogni volta ci viene richiesto di decidere se possiamo o non possiamo fare quella determinata cosa, anche molto banale».
È una “pandemic fatigue”, come l’ha definita Zighetti, una «stanchezza pandemica che porta alla perdita di speranza, ad un senso di impotenza, a tristezza, frustrazione, mancanza di motivazione, ruminazione mentale, ritiro e isolamento, anche un po’ di cinismo con un atteggiamento più fatalista». Una stanchezza dettata anche dalla durata dell’emergenza, che inevitabilmente è fonte di stress.
La risposta è nella relazione. Nel riprendere in mano l’essenza dell’essere umano, per tornare a prendersi cura degli altri. Come? Utilizzando tutti gli strumenti a disposizione: dalla postura, allo sguardo che emerge da sopra la mascherina, dal tono di voce all’inclinazione del capo. Sono tutti segnali di relazione che in un momento complesso devono essere valorizzati affinché nessuno possa sentirsi solo.