“Mai più soli”: più di una parola, una promessa. L’articolo di Maurizio Vitali pubblicato su Tracce

L’incontro tra il giornalista del mensile e la cooperativa sociale in un racconto che coglie il valore del pay-off che accompagna Solidarietà e Servizi da oltre 40 anni

Qualche settimana fa Maurizio Vitali, giornalista della rivista Tracce, è venuto in Solidarietà e Servizi. Ha visitato alcuni servizi, incontrato le persone e vissuto insieme con loro alcuni momenti della giornata riuscendo a cogliere il significato di quel “mai più soli” che guida Solidarietà e Servizi da oltre 40 anni. Questo il suo articolo che è stato pubblicato sul numero di luglio 2022 del mensile Tracce.

«Mai più soli»

di Maurizio Vitali

«Lavorando qui ho avuto la possibilità di pensare che la vita non è chiusa in un confine, ma gode di un oltre». Parola di Salvatore, uno delle migliaia di volti accolti dalla Cooperativa sociale Solidarietà e Servizi, che cura, educa, dà lavoro a  persone fragili. «Mai più soli» è il pay-off della Cooperativa sociale Solidarietà e Servizi, il motto che la contrassegna. Ma anche molto di più: è parola detta a ciascuna delle 6.113 persone fragili e disabili “prese in carico”, è promessa fatta a ognuno in una relazione da persona a persona da parte dei 502 operatori quotidianamente impegnati ad adempierla.

La Cooperativa, nata nel 1979, ha il quartier generale a Busto Arsizio ed è attiva in sei province (Varese, Milano, Como, Lecco, Monza e Brianza, Pavia) con un’ampia gamma di servizi di carattere socio-sanitario, formativo, educativo, di inserimento lavorativo. Domenico Pietrantonio e Paolo Fumagalli sono i due uomini al vertice: del Consiglio di gestione il primo, del Consiglio di sorveglianza il secondo. Qui ha sede anche il Centro socio-educativo per disabili (non troppo gravi). In uno spazio un po’ soggiorno di casa un po’ laboratorio artigianale, gli ospiti sono impegnati a gruppetti in varie attività (ci sono scansie colme di oggetti costruiti da loro) o in conversazioni con le educatrici (tema: la gita fatta a Cremona). Laura, coordinatrice, spiega quello che sta lì sotto i nostri occhi: che l’approccio non è per nulla assistenziale, che ciascuno è guardato come persona unica, con una sua prospettiva e un suo destino. In una relazione personale, l’educatore riconosce e valorizza i talenti di ognuno. Alessandro, con altri disabili, tiene in ordine la grande aiuola della pizzeria che dà sulla piazza, e ne è molto orgoglioso: «Togliamo le cartacce e le cacche dei cani, bagniamo l’erba, così abbiamo lo sconto sulla pizza». È un esempio di esperienza di autonomia, possibile e fruttuosa solo se la persona si sente voluta e in compagnia. «Io con il Paolo», ci tiene a comunicare un altro, «e con la Francy vado a fare la spesa. A volte cuciniamo noi, e non andiamo a mangiare in mensa». Mario, 54 anni, non ha più l’uso della parola: digita su un sintetizzatore che traduce in voce: «Mi piace stare qui perché mi vogliono bene e mi aiutano a star bene». Stesse parole vengono su dal cuore di Maria, che di anni ne ha 69. Esperienze, pensieri, problemi vengono affrontati e discussi insieme per prenderne coscienza, imparare, farne tesoro: cartelloni scritti a pennarello appesi alle pareti raccolgono il succo delle scoperte e delle condivisioni, sotto grandi titoli come “tristezza”, “noia”, “gioia”, “alimentazione”.

A Cassano Magnago il Centro diurno disabili ”Il veliero” accoglie persone, anche minori, con handicap gravi e molto gravi. Nettamente in maggioranza quelli in carrozzina. Come una specie di piccolo drive-in domestico, quattro o cinque di questi “veicoli” sono sistemati in semicerchi o di fronte a uno schermo: guardano i cartoni animati. Altri, in carrozzina o a letto, hanno bisogno di una presenza costante di qualcuno che li accudisca in tutto. Prendersi cura di loro è un affare che non ti dà mai tregua. «In effetti un lavoro così», dice Lucia, coordinatrice del Centro, «va scelto, non subìto magari come ripiego. Per me è stata come la scoperta di una vocazione, nata quando frequentavo ragioneria e ho iniziato a fare caritativa: stare con quelle persone bisognose con una compagnia di amici tesi a cogliere il senso vero di quanto facevamo, a imparare che la vita è gratuità… cavoli! Mi rendeva felice». In una carrozzina che ci passa accanto, c’è una ragazzina minuscola per la sua età – ha 18 anni – gracile, le parti del corpicino sproporzionate, come afflosciata e mezzo accartocciata. «E noi», riflette Lucia «che cosa siamo qui a fare? Noi chi siamo per loro? E loro chi sono veramente per noi, per me? Se mi chiedo solo cosa posso fare e lascio che s’infiltri la pretesa, è un disastro. Occorre semplicemente stare con lei, come un segno, una presenza totalmente gratuita. Anche lei può sentirsi amata, se io stessa mi sento amata». Ma una, da sola, fosse anche una su mille, ce la fa? «No! Non bisogna mai stancarsi di chiedere aiuto … di chiedere. C’è un senso di carità tra i miei colleghi che ci aiuta a prenderci cura di noi stessi e degli altri».

A Gallarate vi è un Centro diurno per minori (una cinquantina fra i 4 e i 18 anni) con disturbo generalizzato dello sviluppo, cioè autistici. Si chiama “Pollicino”, e come nella fiaba offre la traccia per un cammino, in raccordo e a integrazione della frequenza scolastica, di crescita personale. Qui, sotto la guida della coordinatrice, Mariolina, tutto è predisposto con cura. Gli spazi organizzati e ben strutturati, non angusti, ma nemmeno troppo ampi; le cose in ordine, materassini per il relax, strumenti per l’attività motoria, scatole e antine degli armadietti ben etichettati per indicare il contenuto, agenda con la scansione della giornata. Accorgimenti cruciali per una reale attenzione alla persona con disturbi dello spettro autistico, la quale resterebbe dolorosamente disorientata, se non traumatizzata, se non fossero messi in atto. Non solo. Seguire un ragazzo significa non solo dedicare tempo e attenzione a lui, ma anche alla famiglia, che deve portare un enorme carico di fatica fisica e psicologica. Qui raccolgono le lacrime di padri che confidano: «Io da solo tutto questo dolore non ce la faccio a reggerlo», o le angosce di madri avanti negli anni per il futuro dei loro figli: «Chi gli vorrà bene quando non ci sarò più?». Ecco, sempre la percezione acuta, netta, che da soli non ce la si fa. L’unica speranza è in una compagnia che arrivi fino all’amicizia.

Ultima tappa del nostro viaggio, il “Capannone” di Busto, che fornisce lo sbocco lavorativo in diversi reparti: meccanica, assemblaggio, rigenesi di apparecchi di telecomunicazione, gestione documentale e de-materializzazione, call-center e back-office. Si va dalle operazioni più semplici a quelle più complesse e di alto livello. Dovunque, a vederli lavorare, non distingui chi è disabile (circa il 60-65%) e chi no: stesso impegno, stessa cura, stesso piacere del lavoro ben fatto. I disabili seguono un percorso graduale: preparazione al lavoro; tirocinio, con contratto di formazione, per valutare le sue capacità; infine l’assunzione come dipendente a pieno titolo. «Noi crediamo nel lavoro inteso come realizzazione della persona», tiene a sottolineare il presidente Pietrantonio: «Che sia un lavoro degno, utile, remunerato. Perciò accettiamo la sfida del mercato: soddisfare clienti che sono aziende importanti e di prestigio, giustamente esigenti sul rispetto dei tempie sugli standard di qualità. I nostri lavoratori ne sono consapevoli, corresponsabili e orgogliosi». Su una parete è dipinto un grande albero. Rami e radici corrispondono a parole importanti, raccolte dalle esperienze e dai pensieri dei lavoratori. Una è “orizzonte”. L’orizzonte intravisto da Salvatore, cardiopatico, i medici avevano previsto che non sarebbe arrivato a 14 anni, è morto a 33, grato perché «lavorando qui ho avuto la possibilità di pensare che la vita non è chiusa in un confine, ma gode di un oltre». Un’altra è “realizzazione”: «Passavo sempre per incapace, invece ho imparato a riconoscere il mio valore». Poi la parola “onestà”: viene da un lavoratore ex tossicodipendente, abituato a mentire e imbrogliare: «Mi sono sentito guardato e accettato per quello che sono, non mi serve mentire, è naturale essere onesto». Le radici affondano nella parola “dignità”. Fatima, immigrata di 21 anni, una vita a raccogliere patate nei campi per due soldi e neanche uno sguardo da umani: «Qui ho capito che anch’io valgo qualcosa». Davide, un ragazzone di 36 anni, schizofrenico: «Ho fallito tutti i tentativi, solo e lasciato a me stesso non riuscivo neanche a tenere il posto che mi davano». Ora è orgoglioso di «andare a comprare il pane con i soldi che guadagno». «Noi capi e coordinatori», interviene Pippo, «siamo fortunati: vedere come queste persone fragili vivono il lavoro è un dono prezioso da custodire. Ci mostra che il senso del lavoro nasce dall’obbedienza alla realtà, e che si è utili e motivati se si serve qualcosa di più grande. Nel concetto di obbedienza alla realtà si riconosce pienamente anche chi credente non è: semplicemente compartecipa alla stessa esperienza dell’umano, allo stesso cammino di redenzione». Una signora oggi cinquantenne, la vita segnata delle violenze subite dal padre: «Io non ho un Dio, ma grazie a quanto mi dicono e mi fanno vedere i nostri capi, io oggi odio meno mio padre». Una sua collega: «Sono cresciuta in una famiglia credente, poi nella vita mi sono trovata sola e piena di rabbia. Qui sto facendo un grande lavoro su me stessa. Provo invidia per quelli che si convertono, perché li vedo gioiosi». Amanda lavora alla gestione documentale: «Sono passata dalla voglia di morire alla voglia di vivere». Sara ha 28anni, la sindrome di Asperger, una memoria pazzesca, una laurea in Economia, e la perfetta consapevolezza delle sue limitazioni: «Cercavo di camuffarmi per nascondere la mia diversità, qui ho imparato ad accettare la mia condizione, a lavorare sulla mia fragilità. E a pregare».